giovedì 13 agosto 2020

Così tragico, così comico, così assurdo: LA SCOPA DEL SISTEMA - DAVID FOSTER WALLACE

 


David Foster Wallace ha 24 anni quando nel 1987 pubblica La Scopa del Sistema (The Broom of the System). Non so bene cosa si aspettassero gli americani da questo giovane esordiente. Ma credo che rimasero tutti, come dire, estraniati. Forse già dalle prime pagine: stavano leggendo un libro ambientato tre anni nel futuro (perché tre?), scritto in uno stile difficile da inquadrare viste le innumerevoli differenze tra un capitoletto e l’altro, con avvenimenti e personaggi al limiti dell’assurdo, quasi comici se non fossero così reali e precisi. Precisi in che cosa? Nel descrivere i punti deboli e i difetti di quegli stessi americani che stavano leggendo.

La narrazione inizia nel 1983, nella stanza del dormitorio femminile di un college, l’Amherst College. Troviamo delle ragazze intente ad andare alla festa del dormitorio. Tra queste è presente Lenore Beadsman, protagonista del libro, sorella quindicenne di Clarice, studentessa dell’Amherst. Sono presenti anche altre compagne, tra cui la bellissima Mindy Metalman che, ci viene detto dal Lenore, ha brutti piedi. “Molte ragazze davvero belle hanno dei piedi davvero brutti”. Durante i preparativi irrompono in stanza due ragazzi palesemente ubriachi, Andrew “Wang-Dang” Lang e Biff Diggerence. I due hanno un comportamento strano e, dopo alcune esitazioni, rivelano il motivo della loro visita. Per l’ammissione in una confraternita devono farsi firmare il sedere da una ragazza. Mentre Lang e la Metalman, dopo un po’, parlano isolati, e mentre Sue Shaw (la quarta ragazza nella stanza) firma piangendo Biff – che per non vomitare per l’ubriacatura si mette a dare testate contro il muro, gesto che lo renderà celebre – Lenore scappa dalla stanza, per dirigersi alla festa nel suo bel vestito viola. Nel corridoio tuttavia viene colpita da una epistassi. Che cos’è un’epistassi? Il sangue dal naso. Capito come scrive Foster Wallace?

Con l’epistassi termina il primo capitolo e inizia il secondo, ambientato nel 1990 come (quasi) tutto il resto del libro. Fa eccezione il capitolo quarto, ambientato nel 1972, ed è un breve flash back. Da questo secondo capitolo si delinea la storia principale del libro: la bisnonna di Lenore, Lenore Beadsman, è sparita dalla casa di riposo in cui si trovava insieme ad altri venti individui tra pazienti e personale. Tutto ruota attorno alla famiglia Beadsman, dove i maschi assumono spesso il nome di Stonecipher. All’epoca della storia il capofamiglia e proprietario della ditta per alimenti per l’infanzia è Stonecipher Beadsman III. Il fatto che sia proprietario di una ditta di alimenti infantili è centrale nella storia: pare che la ditta stia sperimentando un prodotto in grado di far parlare prematuramente i bambini, che nonna Lenore ne sia venuta a conoscenza, e sia scappata con altri anziani portando un po’ di questo nuovo prodotto con sé. Bisogna inoltre precisare che nonna Lenore è una studiosa (nonché allieva) di Wittgenstein. Di conseguenza la lingua e il linguaggio sono centrali nella sua vita. Anzi: per lei tutta la vita, tutto l’esistente, è una questione linguistica. Di conseguenza un prodotto che stimola il linguaggio è molto interessante per lei.

Attorno alla ricerca vi sono altre sottotrame, ognuna con altri personaggi. Come co-protagonista, in quanto voce narrante di alcuni capitoli, si può individuare Rick Vigorous, compagno di Lenore nonché suo datore di lavoro presso la casa editrice Frequent & Vigorous, che prende sede nel palazzo della Bombardini Company. O anche le vicende della famiglia Beadsman, non solo la scomparsa di nonna Lenore, ma anche il rapporto tra Clarice e suo marito, la storia del giovane Stonecipher LaVache con una protesi alla gamba che utilizza come deposito per la droga, la scomparsa del terzo fratello, John. E ancora altre trame minori, o presunte tali, come il desiderio di Norman Bombardini, proprietario del Bombardini Building, che vuole ingrassare fino a contenere tutto l’universo, come le vicende di Vlad l’Impalatore, il pappagallo di Lenore che all’improvviso ha iniziato a ripetere a raffica ogni cosa gli venisse detta.

La Scopa del Sistema è certamente un libro dinamico, ricco di elementi e di avvenimenti. Questo non sarebbe possibile senza una galleria altrettanto ricca e stravagante di personaggi. Ad esclusione di Lenore tutti i personaggi di questo romanzo sono esagerati, e creano di conseguenze storie e avvenimenti altrettanto esagerati e tragici. Ma di quel tragico talmente assurdo da risultare, alla fine dei conti, comico. Come il modo di raccontare di Rick Vigorous, così pomposo da essere estenuante, o la sua tremenda insicurezza nei confronti di Lenore. Come l’intelligenza, la cultura e l’intuito tagliente di LaVache, utilizzati però al solo scopo di ottenere la droga. O come le espressioni di Mr. Bloemker, direttore della casa di riposo Shaker Heights, dove risiedeva Nonna Lenore, che parla in un modo talmente complicato, talmente formale, da doversi spesso rispiegare semplificando.

Questa esagerazione continua non farebbe lo stesso effetto senza un impianto stilistico tanto variegato: da narrazioni classiche in terza persona si passa ai racconti in prima persona di Rick Vigorous, a sezioni solo dialogate che ricordano battute cinematografiche o teatrali, a resoconti di sedute psicanalitiche con il Dr. Jay, psicanalista di Lenore e di Rick allo stesso tempo. L’eterogeneità dei temi, delle trame e dei personaggi si declina anche in una pluralità di stili, utilizzati con maestria a seconda dell’occasione.

Non bisogna dimenticare inoltre che il libro è stato sì pubblicato nel 1987, ma è ambientato nel 1990: tre anni nel futuro. Perché? Per concedersi un po’ di libertà. Ambientare il libro nel futuro, anche se di poco, permette a Foster Wallace di inserire certi elementi estranei e assurdi che rendono il racconto ancora più unico. L’esempio più lampante è il DIO, Deserto Incommensurabile dell’Ohio (in originale: GOD, Great Ohio Desert): un deserto artificiale di cento miglia quadrate nel sud dello Stato. Un deserto di sabbia nera. La libertà di inserire elementi stravaganti e innovazioni consente in sostanza a Foster Wallace di compiere una critica ancora più tagliente degli Stati Uniti e dei suoi abitanti, una satira esilarante e velenosa.

Dove troviamo una galleria altrettanto complessa e assurda di personaggi, una rete fitta e intricata di trame primarie e secondarie, un realismo spinto al limite e fuori dall’ordinario, un’ambientazione posta nel futuro con tutto ciò che ne consegue, una pluralità di stili portati anch’essi al limite, il tema della droga, della famiglia disastrata e della competizione? Nel romanzo maggiore, Infinite Jest. La Scopa del Sistema pare infatti, in ultima analisi, quasi un preludio del secondo romanzo dell’autore, scritto pochi anni dopo. Non solo di Infinite Jest, ma anche di tutta la prosa narrativa di Foster Wallace, come ad esempio gli otto romanzi brevi di Oblio.

Nonostante il forte paragone con il romanzo maggiore, nonostante ne sia un evidente precursore, La Scopa del Sistema è molto diverso, proprio per il suo carattere ironico ed esilarante. Leggendo Infinite Jest non si ride mai: si è troppo occupati a decifrare questo gioco infinito in cui l’autore ci conduce. Leggendo La Scopa del Sistema invece si ride spesso, per le situazioni, per i caratteri, per come ci viene narrato un evento. È un libro scritto da un David Foster Wallace diverso, più giovane, forse più inesperto della vita. Ma ugualmente profondo e sferzante contro la società americana.

venerdì 5 giugno 2020

Due omicidi e bella scrittura: PECCATO MORTALE - CARLO LUCARELLI


Bologna, 24 luglio 1943. Il commissario De Luca, della polizia criminale, investigando su un malavitoso che vende generi alimentari al mercato nero, detto “il Borsaro”, si imbatte in un cadavere, più precisamente in un cadavere senza testa. I sospetti ricadono ovviamente sul Borsaro, dato che il corpo è stato trovato nel casolare abbandonato da lui utilizzato come magazzino. Quel giorno il guardiano doveva essere un ragazzino di quattordici anni, Gianfranco Negroni, che quando viene interrogato risponde (in dialetto) di aver visto “al Crest d’i càn”, il Cristo dei cani, alla chiusa del canale. Trascorsa la notte, sul posto giungono altri membri del corpo di polizia, il console della Squadra Annonaria Amedeo Martina e il professor Boni, medico legale dai meriti ambigui (più che altro l’essere cognato di un sottosegretario del ministero dell’Educazione Nazionale). Mentre al professor Boni viene affidata l’autopsia del cadavere – che verrà eseguita “in due o tre giorni”, ovvero una settimana – il console Martina se ne va dalla scena del crimine portandosi dietro una valigetta trovata sul posto. Anche De Luca viene mandato a casa, e trascorrerà il resto della domenica in compagnia di Lorenza, la sua fidanzata, e gli amici di lei.

 

In riva al fiume, riposando e chiacchierando, De Luca scopre che cos’è il Cristo dei cani: è un affresco, su un’importante tomba familiare alla Certosa. Il commissario credeva che l’affresco citato dal ragazzino potesse assomigliare all’uomo che aveva visto, per questo lo aveva chiamato così. Ma la realtà è un’altra: il Cristo dei cani è un affresco in cui la figura centrale, rovinata, presenta solo la testa. Ciò vuole dire che Negroni ha visto la testa dell’uomo decapitato alla chiusa vicino alle case abbandonate. De Luca si precipita fin là con la bicicletta, attraverso Bologna, e finalmente la trova, la testa. Tuttavia, mentre attraversa il centro per raggiungere la questura, è la sera del 25 luglio 1943 e sappiamo tutti cosa succede: Mussolini viene arrestato e il regime fascista crolla.

 

Tra i disordini che ne conseguono, De Luca, inarrestabile, riesce comunque a consegnare la testa al dipartimento di Medicina dell’Università di Bologna (non al professor Boni, ma al talentuoso e appassionato professor Tirabassi), con la promessa di compiere l’autopsia entro il pomeriggio. Dopo essere tornato, qualche ora dopo, il commissario viene posto davanti a una realtà che non si aspettava: la testa non appartiene a quel corpo. De Luca ha quindi due omicidi da risolvere: quello della testa senza corpo, e quello del corpo senza la testa. Due casi legati tra di loro. E, a creare ulteriore confusione, il console Martina, il Borsaro e il ragazzino sono scomparsi.

 

Carlo Lucarelli ci ha abituati a romanzi in cui il caso da risolvere è tanto interessante quanto lo sfondo storico in cui è ambientato. In questo episodio del grande romanzo del commissario De Luca infatti i misteri sono molti e, da un certo punto in poi, la trama si infittisce sempre più. Aumentano le domande, aumentano i personaggi, le relazioni (intime o lavorative) si trasformano. Ogni volta che il commissario si avvicina alla risoluzione del caso, avviene sempre un evento fortuito, una coincidenza, un errore esterno, a riportare il caso dove era prima: lontano dall’essere risolto. Ma anche quando ciò non accade e al commissario sembra davvero di essere vicino alla soluzione, c’è sempre un particolare che non torna, un oggetto fuori posto. Andando avanti con la lettura si è certi che il caso verrà risolto, ma in che modo? E poi, i colpevoli pagheranno?

 

Perché, come dicevo, nei romanzi di Lucarelli non è importante solo il caso in sé, ma anche la cornice storica, e Peccato Mortale non fa eccezione. È ambientato in un momento molto particolare per Bologna e l’Italia in generale: la seconda metà del 1943. Accadono alcuni eventi importanti, primi fra tutti la caduta del regime fascista a luglio e la fuga di Mussolini e l’instaurazione della Repubblica di Salò a settembre, con il conseguente ritorno dei fascisti e dei tedeschi nel nord Italia, Bologna compresa. L’autore dipinge perfettamente la situazione di un poliziotto in una città come Bologna, una situazione particolarmente difficile. Con la caduta del fascismo infatti i poliziotti, essendo “ministri dell’ordine pubblico”, vengono classificati subito come fascisti e a rischio di rappresaglie, attacchi e violenze. Dall’altra parte invece, con l’instaurazione della Repubblica di Salò e il ritorno del comando tedesco a Bologna, quegli stessi poliziotti possono venire accusati di antifascismo, e quindi cacciati o addirittura fucilati.

 

Come si deve comportare un commissario come De Luca in questa situazione? Ha due casi da risolvere, due morti a cui dare un nome una storia, ma è un periodo complicato e (apparentemente) a nessuno interessa tutto questo. Il commissario inoltre non considera la politica, pensa solo a fare il proprio lavoro: trovare gli assassini e incriminarli. Non c’entra la politica. Eppure fin da subito tutta la vicenda è immersa nella politica e De Luca, a causa di questa, commetterà il suo peccato mortale che lo perseguiterà e che da il titolo al libro. Inoltre l’indagine inizierà presto ad occuparsi di persone “intoccabili”, cioè di alte sfere del governo e della vita pubblica che sotto il regime godevano sostanzialmente di immunità: come si dovrà comportare il commissario in questa situazione? Anche le vicende private di De Luca, il suo amore con Lorenza, il rapporto con la famiglia e gli amici di lei, tutto verrà immerso nella politica.

 

Tuttavia la caratterizzazione storica non è l’unico cavallo di battaglia di Carlo Lucarelli. Peccato Mortale non sarebbe così interessante, così misterioso, così fluido senza una scrittura altrettanto fluida, con un uso della lingua sapiente e corretto, esattamente quello che si definisce “bello stile”. In soldoni: Lucarelli scrive bene. Molto bene. Le pagine scorrono leggere una dopo l’altra. Le descrizioni sono semplici, a volte scarne, ma ritraggono gli elementi essenziali per dar vita al mondo che vogliono rappresentare e tutto ciò che leggiamo sulla pagina è facilmente figurabile nelle nostre menti. Per chi conosce Bologna queste descrizioni sembrano quasi ricordi di una città che non si ha mai visto, molto diversa da quella di oggi, ma ancora presente. Sentiamo sulla nostra pelle il vento della discesa in bicicletta dai colli, la pressione della folla il giorno dell’armistizio, il sapore metallico del sangue nella bocca dopo un pugno ricevuto.

 

Ecco Peccato Mortale di Carlo Lucarelli: due omicidi da risolvere, Bologna e l’Italia in crisi politica e in guerra, l’amore puro, incondizionato e paziente di Lorenza, una scrittura limpida e semplice. Leggetelo anche se non siete amanti del giallo/thriller, ne vale la pena.


lunedì 25 maggio 2020

La satira politica sulla Brexit: LO SCARAFAGGIO - IAN McEWAN


Ormai non si può dubitare che Kafka sia uno degli autori più influenti del ‘900. Basta guardare a quanti autori si sono misurati con le sue opere, autori del calibro di Philip Roth e Murakami. Nell'empireo degli scrittori che hanno reso omaggio a Franz Kafka ora figura anche Ian McEwan con Lo Scarafaggio, esilarante e velenoso racconto satirico, che prende le mosse proprio dall'opera forse più famosa di Kafka, La Metamorfosi

Fare confronti tra le opere del passato e le opere contemporanee non è sempre produttivo: i classici del passato godono di un’aurea di prestigio accresciuta dal tempo, e se si segue il solito principio del “era meglio prima” la letteratura contemporanea (in ogni tempo) rischia sempre di uscirne svilita. Non si tiene conto del cambiamento di società, di pubblico, di culture. Bisognerebbe analizzare la letteratura contemporanea senza confrontarla con il passato, poiché la contemporaneità ha una sua dignità.

Tuttavia in un caso del genere non fare un confronto sarebbe impossibile e, anzi, senza l’intenzione di confrontarsi con Kafka McEwan non avrebbe scritto un racconto in questo modo. O, quanto meno, l’inizio di un racconto.

Partiremo da Kafka. Nella Metamorfosi un uomo, Gregor Samsa, si risveglia un mattino trasformato in un enorme scarafaggio. Quest’uomo di professione fa il (postino?) e vive in casa con i genitori. Il racconto è tipico di Kafka: si concentra sull’interiorità del personaggio, sui suoi disagi, le sue debolezze, le sue paure. Parla sì della società, criticandola, ma soprattutto parla dell’uomo e dell’animo umano. Con la trasformazione Kafka vuole parlare della reazione al diverso e dell’alienazione dalla famiglia, dalla società e, alla fine, dalla vita stessa.

Lo Scarafaggio invece, pur essendo simile e partendo da questa trasformazione come base, è molto diverso. Uno scarafaggio si sveglia un mattino trasformato in essere umano. Si ritrova con soli quattro arti, con “una testa pesante almeno cinque chili”, con un organo umido, spugnoso, viscido, all’interno di una cavità bagnata contornata da una fila di duri denti, con due occhi non composti e a colori. Dopo la visita della segretaria e dopo essersi visto allo specchio lo scarafaggio-uomo si riconosce come Jim Sams, Primo Ministro inglese. Durante i primi minuti del risveglio cerca di ricordare la notte precedente, per capire come, quando e dove è avvenuta la metamorfosi. Dopo un lungo e pericoloso tragitto (è passato incolume attraverso una manifestazione, con centinaia di paia di gambe e piedi umani pronti a schiacciarlo!) ricorda di essere salito su per le scale del numero dieci di Downing Street e, salito sopra un letto, di essersi acquattato sotto un caldo e soffice cuscino per dormire e riposare. E… bum, il mattino seguente era uno scarafaggio.

Le somiglianze con La Metamorfosi finiscono qui dato che il libro prosegue lungo una rotta completamente diversa. Non analizza l’animo umano (o almeno non così direttamente come in Kafka), ma si concentra sulla situazione politica contemporanea dell’Inghilterra. Attraverso la satira, ovviamente. Una elegante, divertente e non troppo sottile satire. Fin dalle prime pagine del libro, quando il Primo Ministro si è vestito ed è a riunione con il suo sottosegretario personale, compaiono parole che possono confonderci: Inversionismo e Cronologismo. I primi secondi dopo aver letto questi termini ci chiediamo spontaneamente se ci siamo persi qualcosa, se in Inghilterra sta succedendo qualcosa di cui non siamo al corrente. Ma poi Ian McEwan spiega tutto nel secondo capitolo: sono due movimenti politici fittizi, inventati.

L’Inversionismo prevede un flusso economico “inverso”, appunto: il cittadino non lavora per guadagnare soldi, ma spende soldi per lavorare. Avere un patrimonio personale superiore a poche decine di sterline diventa reato poiché tutto ciò che si guadagna lavorando deve essere speso immediatamente, per poter lavorare il giorno successivo. Più soldi si spendono, più si avrà un lavoro redditizio. In questo modo, spiegano i sostenitori del movimento, si sbloccherà l’economia e ci saranno maggiori introiti per tutti. Confusi? È assolutamente normale. Sarebbe un’assurdità, un vero suicidio economico. Quasi come la Brexit.

Quando lo scarafaggio si sveglia nei panni di Jim Sams, l’Inghilterra è politicamente divisa tra inversionisti al governo che hanno promesso di realizzare l’Inversionismo e cronologisti (coloro che vogliono mantenere le cose come sono sempre state nel tempo) all’opposizione. Da questo momento Jim Sams, senza farci capire bene con quali mire, farà tutto ciò che è in suo potere per realizzare l’Inversionismo. Ed essendo il Primo Ministro, può fare molto: da un incidente diplomatico (un’imbarcazione francese ha travolto un piccolo peschereccio inglese, che si trovava dove non poteva, uccidendo i marinai) fa rinascere un sentimento nazionalista antifrancese; trova un alleato molto potente, ingannandolo, nel presidente degli Stati Uniti, Archie Tupper, molto avvezzo a Twitter; crea a tavolino uno scandalo sessuale, in cui una sua collaboratrice accusa un ex collaboratore, passato segretamente all’opposizione, di atti sessuali non richiesti anni addietro; sfrutta le conoscenze nei giornali per creare fake news a lui favorevoli; organizza un evento negli USA e richiama segretamente i propri sostenitori per avere la maggioranza di voto nel momento decisivo del disegno di legge. Il disegno passerà e l’Inversionismo sarà in atto dal venticinque dicembre dell’anno corrente.

Com’è facile intuire dalla trama, e come spiega lo stesso McEwan nella postfazione, il collegamento con Kafka è solo un omaggio, e riservato unicamente all’inizio del testo. Il resto del racconto lungo si concentra sulla politica – dalla quale è possibile ricavare informazioni sulla natura umana, è vero, ma non sono così dirette come nella Metamorfosi. Il modello di questa parte, ci dice l’autore, è un pamphlet di Jonathan Swift dal titolo Una modesta proposta. Visto il periodo storico di scrittura e pubblicazione de Lo Scarafaggio, visti i chiari riferimenti al presidente Trump e alle inimicizie con l’Ue, leggendo il racconto fin dalle prime pagine viene in mente la Brexit. E lo conferma lo stesso McEwan: il racconto è una satira nei confronti della Brexit. Senza spiegare ulteriormente il testo, dato che troverete tutto scritto e spiegato chiaramente dall’autore, posso porre questa domanda: cos’è più assurdo per l’economia inglese, cos’è più dannoso, uscire dall’Unione europea o invertire il flusso economico? Quando anche la realtà sembra un romanzo, quando si sono raggiunti certi livelli di assurdità, “potremmo doverci affidare al conforto della risata”, conclude Ian McEwan.

domenica 12 aprile 2020

La narrazione nel saggio: SPILLOVER - DAVID QUAMMEN


Quanto ne sappiamo di virus? Eppure sono in mezzo a noi da parecchi anni, dovremmo conoscerli bene. Alcuni sono molto famosi, altri un po’ meno. Alcuni sono una novità, con altri conviviamo da oltre un secolo. Alcuni uccidono, altri potrebbero farlo ma non lo fanno, altri ancora lo fanno ma potrebbero farlo molto di più, con le condizioni adeguate. Quanto ne sappiamo di virus, insomma? Da dove vengono? Perché sono così diversi? Perché a volte basta un vaccino e altre volte si può solo tentare di contenere le conseguenze? Le domande, come potete vedere, sono molte riguardo a questi microbi mortali. L’intento di David Quammen, scrivendo il libro Spillover, è proprio quello di esporre quanto più sappiamo su di loro. Alcune domande troveranno risposta, altre (molte, molte altre) invece no, perché la scienza allo stato attuale delle cose non può rispondervi.

Il libro è stato recensito e studiato in lungo e in largo, quindi probabilmente lo conoscete già: è un saggio diviso in nove capitoli, e in ognuno di questi capitoli l’autore si concentra su un particolare tipo di virus, definendone la storia dei contatti con l’uomo, la provenienza, la localizzazione geografica, le traversie scientifiche e pubbliche, tutte le caratteristiche. Ci dona aneddoti. Ci fa incontrare ecologi, scienziati, medici, antropologi, zoologi, avventurieri, portatori dell’Africa centrale, allevatori. Ci mostra dati, espone teorie, le confuta, ne espone altre. Fino ad arrivare a uno snodo centrale, al messaggio di fondo del libro: i virus sono colpa nostra. È l’essere umano infatti che, con la sua attività spropositata, intacca i climi e le biosfere costringendo gli animali, stabili nei loro ambienti da millenni, a migrare. Questo provoca addensamenti di popolazioni, o contatti tra animali che non si erano mai incontrati, addirittura contatti ravvicinati con l’uomo. È attraverso queste strade che i virus trovano il modo di crescere, spostarsi e diventare pericolosi. Ma come ho detto, questo aspetto del libro probabilmente lo conoscerete già.

Vorrei dunque concentrarmi sull’aspetto formale. Spillover è un saggio, e come tale presenta una lingua scientifica, precisa e sorvegliata, con molti termini tecnici. Alcuni (molti) sono difficili da pronunciare, com’è normale in ambito scientifico, medico, biologico. L’esposizione è chiara e strutturata. A una tesi seguono delle argomentazioni esplicative. Il tutto corredato da dati, cifre, altri termini complicati e denominazioni scientifiche. Un saggio, solitamente, è scritto in questo modo. Ma Spillover? È solo questo?

No. Lo si può intuire già dal primo capitoletto del primo capitolo. È come se l’autore volesse raccontare una storia. C’è un evento iniziale, dal quale sorgono molte domande. I protagonisti di questa storia (i medici, i pazienti, le organizzazioni della sanità, i tecnici di laboratorio…) iniziano ad agire per risolvere il mistero, raccolgono dati, si fanno aiutare da altri personaggi, uniscono le forze per capire cos’è successo, per capire da dove è partito, per capire chi ha iniziato tutto questo. La risposta finale al mistero a volte c’è, poiché i dati e le ricerche hanno successo. Altre volte bisogna aspettare anni, e il lettore percepisce quest’attesa. In alcuni casi le risposte non sopraggiungono e quanto è successo rimane un mistero.

Ecco cosa fa David Quammen con Spillover: non è un semplice saggio espositivo, in cui appunto si espone una serie di dati, conoscenze e teorie al fine di informare il lettore su un preciso argomento, in maniera lineare. Spillover vuole sì informare scientificamente il lettore, ma lo fa attraverso un processo narrativo. Gli viene raccontata una storia. Può essere la storia degli sforzi dei ricercatori che hanno tra le mani un virus mai visto prima e devono isolarlo, capirlo, studiarlo, e della gioia quando il mistero viene svelato. Oppure la storia dei viaggi di Quammen attraverso il mondo, alla volta di foreste, laboratori, templi o tranquille università in tranquille cittadine. In Spillover si percepisce chiaramente lo sviluppo degli studi sui virus, e quanto questi studi richiedano tempo, ingegno, dedizione, coraggio (voi lavorereste mai con i rischio di infettarvi di rabbia, HIV o malaria?) e una dose non indifferente di fortuna. Alcuni passi del libro sono molto riusciti in questo aspetto narrativo e si leggono con il cuore in gola. Altri invece sono più saggistici, tradizionali se vogliamo.

Concludendo, ritengo che Spillover di David Quammen non sia un libro eccellente solo dal punto di vista contenutistico, mostrando quanto le abitudini dell’uomo siano dannose per l’uomo stesso, ma anche dal punto di vista formale, grazie a questo aspetto narrativo che rende la lettura non solo facile e scorrevole, ma addirittura avvincente nelle parti in cui il mistero si infittisce e le risposte alle domande poste sembrano molto lontane.

mercoledì 8 aprile 2020

Quando manca lo stile: 1Q84 - HARUKI MURAKAMI


In tutta onestà 1Q84 è il primo romanzo di Murakami che leggo. Ho letto L’ arte di correre, certo, ma non è un romanzo, è un saggio. Per quanto possa essere narrativo e biografico è comunque un saggio. Di conseguenza Murakami narratore non l’avevo mai incontrato e non sapevo cosa aspettarmi.
È un autore popolare, largamente amato. Potremmo quasi considerarlo un classico contemporaneo, vista l’assidua presenze sugli scaffali delle librerie e sulle mensole dei lettori in tutto il mondo. 1Q84 è riconosciuto come uno dei suoi capolavori – secondo forse a Norvegian Wood e a Kafka sulla spiaggia, eventualmente. Così, amando io i libri lunghi e non facendomi mai spaventare da pagine in quadrupla cifra, sono partito da questo. Ho trovato un’edizione usata praticamente nuova, un cofanetto trasparente con al suo interno i tre volumi che compongono l’opera, volumi prevalentemente azzurri con dei cerchi e un volto – orientale, penso femminile – del quale si distingue un occhio. “Bella edizione” mi sono detto, da amante dei cofanetti. Tuttavia l’aspetto del libro è merito dell’editore, non dell’autore (generalmente), così non gli ho dato troppo peso e ho iniziato la lettura.
Il libro si legge bene, la prosa è chiara e semplice. Fin dal primo capitolo ci si ritrova immersi in una storia con dei misteri, la trama è già iniziata così, senza presentazioni, e non si capisce bene cosa stia succedendo. Intrigante. Una donna, Aomame, è seduta su un taxi imbottigliato nel traffico e non vuole arrivare in ritardo per un lavoro che deve svolgere. Il taxista le dice che può uscire dal taxi e, raggiunta la piazzola d’emergenza della tangenziale camminando con attenzione tra le macchine in coda, scendere dalla tangenziale attraverso una ripida scala. “Ma attenzione” le dice il taxista, “non è una cosa comune, e porta a delle conseguenze”. Aomame, più preoccupata per il proprio appuntamento (cosa dovrà mai fare di così urgente?) che per le conseguenze dello scendere una scala d’emergenza, si accinge all’impresa.
Nel secondo capitolo incontriamo un personaggio maschile, Tengo. Ci viene presentato come un uomo sulla trentina dalla corporatura estremamente massiccia. Insegna matematica in una scuola preparatoria (scuola che prepara gli studenti ai test d’ammissione per le università, test particolarmente difficili) ma vorrebbe scrivere libri. Il suo editor e datore di lavoro è Komatsu, uomo sempre attivo e dall’ambigua reputazione nel mondo letterario. In questo capitolo i due si devono incontrare per discutere dei libri presentati per il concorso letterario per esordienti della rivista di Komatsu. Tra i testi presentati c’è quello di una giovane ragazza diciassettenne, di nome Fukaeri – presto scopriremo essere uno pseudonimo, creato con l’unione di nome e cognome della ragazza. Il titolo del libro è La crisalide d’aria. “Cos’è una crisalide d’aria? Come può esistere?” sono le prime domande che vengono in mente. Il romanzo non è scritto bene, e Komatsu vuole rifiutarlo, ma concorda con Tengo sostenere che abbia qualcosa di particolare, sarà la trama, non si sa, ma una volta iniziato si vuole leggere fino alla fine. Com’è possibile? In ogni caso, il libro in questa forma non può essere presentato al concorso. E allora Komatsu ha un progetto per Tengo: riscrivere il libro. Cosa ne verrà fuori? Cosa succederà quando Tengo e Fukaeri si incontreranno? Cosa c’è scritto di così magnetico nel libro?
Come ho detto, già dall’inizio si è immersi in un alone di mistero avvolgente, con domande che è difficile ignorare e a cui al momento è impossibile dare una risposta. Tra spionaggi, un cielo con due lune (esatto, due lune, una normale e una verde, più piccola e deforme), eventi storici che non corrispondono, dubbi sulla realtà in cui viviamo, amori perduti e la necessità di ritrovarli, questo libro racconta di alcune delle nostre paure, e lo fa con una semplicità e correttezza disarmanti. È inevitabile, in alcuni momenti, sentirsi profondamente rappresentati da questa storia, per quanto assurda e immaginifica. Inoltre coinvolge emotivamente, il lettore è naturalmente portate a voltare pagina (in alcuni punti) per sapere come va a finire, se finalmente i protagonisti o gli antagonisti riusciranno nel loro intento. Le domande troveranno una risposta? Sì, ma nasceranno altre domande. Ci sarà, una risposta anche per queste? Leggi i capitoli successivi, e lo scoprirai.
Tuttavia un libro non può essere valutato soltanto dalla trama, deve anche essere sostenuto da uno stile adeguato. E lo stile di Murakami com’è? È semplice. Le frasi sono brevi, le subordinate (quando ci sono) non vanno mai a sovraccaricare il peso di lettura. Le descrizioni sono molto particolareggiate e in alcuni punti rendono davvero bene l’immagine che l’autore vuole dare. Ma tutto qui. Non va oltre questa semplicità, non è interessante leggere una scrittura di questo tipo. Sembra sia stato scritto solo per la trama, per essere venduto, per raccontare una storia fine a sé stessa insomma. Non vi è un vero studio dello stile. Inoltre, per quanto le descrizioni siano particolareggiate e precise, Murakami è in difficoltà (o almeno questa è stata la mia percezione) quando deve descrivere le emozioni dei personaggi. Non le descrive mai per sé stesse, o mostrandole attraverso le azioni e i comportamenti dei personaggi. Utilizza sempre metafore e similitudini. In un punto del terzo libro descrive la solitudine come una pietra liscia sul fondo scuro e freddo dell’oceano. Immagine sicuramente interessante, e non c’è dubbio che renda bene il concetto. E sicuramente può anche essere molto poetica. Ma leggere questo tipo di procedimento cinque volte in una pagina, e ogni dieci pagine, stanca. Fatto una volta per impreziosire un particolare punto del testo va bene, ma come consuetudine no.
Inoltre non solo formalmente, ma anche strutturalmente ci sono degli elementi che non filano proprio bene. Ho scritto che la trama attira e invoglia il lettore e ne sono convinto, ma alcuni elementi narrativi proprio non mi convincono. A cominciare dal meccanismo di entrata ed eventuale uscita dal mondo alternativo (scusate il piccolo spoiler, l’avreste comunque scoperto entro poche decine di pagine): in che modo entrare in questo mondo è facile, vivendo la propria vita come sempre, ma uscirne dovrebbe essere un problema? Bisognerebbe uscirne vivendo comunque la propria vita, senza cambiamenti, così come è successo entrandovi. Scusate se non poso approfondire ulteriormente il discorso e se eventualmente non lo capite a fondo, ma più di così non posso dirvi senza scadere in volgare anticipazioni.
Un secondo elemento che mi ha infastidito è la caratterizzazione dei personaggi e delle loro abitudini, in particolare quelle culinarie. So che può sembrare una sciocchezza, ma se un autore da così tanto peso a determinate azioni dei personaggi, significa che queste azioni sono importanti, perché rendono il personaggio quello che è. Pura e semplice teoria testuale. Ora, cosa fa Murakami? Crea dei personaggi anche interessanti il più delle volte, e diversificati tra loro. Abbiamo un’istruttrice di ginnastica, un professore i matematica, una guarda del corpo, un detective privato. Ognuno di loro ha abitudini, corporature, sogni e peculiarità diverse. Tuttavia mangiano tutti nello stesso modo: evitano la carne, prediligono le verdure, cucinano molto e a volte si dimenticano di mangiare. Tutti. Com’è possibile? Leggendo L’arte di correre sono venuto a sapere che Murakami ha esattamente queste abitudini culinarie. Inoltre, i personaggi, per quanto diversi, si comportano quasi tutti nello stesso modo, pensano nello stesso modo, e tutti, in un modo o nell’altro, richiamano l’autore.
Ora, non sono contrario a parlare di sé stessi nei libri, anzi uno scrittore spesso sente l’esigenza di scrivere proprio per esprimere sé stesso. L’ha fatto Hemingway nel Vecchio e il mare, l’ha fatto Proust nella Recherche. Ma non in questo modo. Mettere sé stessi al centro del proprio libro, creare un sistema di personaggi sempre uguale a sé stesso (che è uguale all’autore stesso), è come mostrare un mondo in cui l’unico punto di vista sia quello dell’autore. Siamo ben lontani dalla polifonia dei caratteri di Dostoevskij. Ovviamente non è necessario raggiungere il grande scrittore russo, ma creare un minimo di diversità sì.
Concludendo, 1Q84 di Murakami è un libro imperfetto, con uno stile forse troppo semplice, uno stile che vuole solo catturare il lettore senza offrire una vera esperienza di lettura. La trama presenta delle impurità, ma nonostante questo la struttura regge e si è naturalmente invogliati a continuarne la lettura. A un certo punto entra in gioco il gusto personale, e nonostante a me non sia particolarmente piaciuto (pur considerandolo buono) posso capire che sia stato e venga tutt’ora apprezzato da molto lettori in tutto il mondo.

lunedì 9 marzo 2020

Libri e vita: LA CASA DI CARTA - CARLOS MARIA DOMINGUEZ


La casa di carta parla d’amore. Di più amori, a dir la verità. Vi è quella che sembrerebbe la storia d’amore tra una deceduta professoressa di ispanistica dell’Università di Cambridge, Bluma Lennon, e un misterioso letterato sudamericano, Carlos Brauer, conosciuto a un convegno in Messico; l’amore per i libri, con le testimonianze di librai, di lettori, di possessori di immense biblioteche; vi è l’amore per la conoscenza contenuta nei libri.
In ogni caso, al centro di tutto vi sono i libri e un libro in particolare, La linea d’ombra di Joseph Conrad, che arriva nelle mani dell’Io narrante (innominato in tutto il breve romanzo) pochi giorni dopo i funerali di Bluma Lennon. Il libro è coperto da un velo di cemento e reca una dedica sulla prima pagina, dedica scritta dalla stessa professoressa Lennon: il pacco è evidentemente una restituzione, giunta troppo tardi. Così comincia la ricerca del mittente del pacco, e primo destinatario del libro, che porterà il protagonista in Argentina e poi in Uruguay. Lungo questo percorso conoscerà persone vicine a Carlos Brauer e gli racconteranno della sua “malattia”: i libri, e in particolare la gestione della sua libreria composta da ventimila volumi, e l’incidente che compromise la sua salute mentale, già di per sé debole. Per conoscere la verità e avere una possibilità di restituire il libro, il protagonista dovrà spingersi fino a lingua di sabbia semideserta, abitata solamente da pescatori, irraggiungibile con l’automobile. Un luogo duro se non si è abituati a vivere lì, dove la vastità dell’oceano e la profondità del cielo notturno possono farti sentire una formica e schiacciarti.
Il tema di fondo del libro tuttavia, mostrato e analizzato in ogni sua parte, sono i libri. Il lettore sarà sia ammaliato sia infastidito da quanto viene raccontato: si parla di salotti con collezioni incredibili, tutte le pareti di una casa coperte da librerie colme di volumi, collane complete, edizioni rare, tavolini da te, poltrone, pulizie complete regolari in modo da evitare la polvere. Si parla del piacere di aprire un volume nuovo, sentirne l’odore, sfogliarlo, leggerlo, e leggerne altri venti per capire davvero il suo significato. Si parla di grandi autori latinoamericani, dei loro libri, di copie originali, di biblioteche personali. Ma La casa di carta presenta anche il lato oscuro dei lettori: quelli che non rispettano i libri, che li sottolineano con colori diversi, che prendono appunti con la penna per studiarli, che scrivono anche su prime edizioni e copie rare ormai introvabili e costosissime. La stessa casa di carta a cui allude il titolo non è soltanto una metafora. Metafora, tra l’altro, molto intelligente: la lettura che crea una protezione dalle intemperie dell’esterno e una biblioteca personale che riflette la propria vita, dove alcuni ricordi e momenti sono legati indissolubilmente ad alcuni libri.
La casa di carta è un libro estremamente breve, quasi un racconto (nell’edizione Sellerio conta 85 pagine) e l’autore, Carlos Marìa Domìnguez, avrebbe davvero potuto scrivere un’opera più lunga e imponente, il materiale lo concedeva di certo, dato che i lati oscuri della storia anche nel finale restano molti. Tuttavia la decisione della brevità non pesa sul lettore, anzi rende il tutto molto più leggero e, se vogliamo, realistico: il libro è in prima persona, e non è possibile che il protagonista possa conoscere nel dettaglio la vita della professoressa, la vita di Carlos, e le vicende che li accomunano, e dato che viene sempre mantenuto il suo punto di vista anche il lettore resta all’oscuro di molti dettagli, di molti eventi, che tuttavia può immaginare. Leggerezza, nonostante alcuni episodi del racconto, potrebbe davvero essere l’essenza di questo libro.

giovedì 12 settembre 2019

Innamorarsi del grottesco: LA MORTA INNAMORATA - TEOPHILE GAUTIER


Un ragazzo è sicuro di diventare prete da prima dell’adolescenza. Da allora infatti il suo mondo è consistito nel seminario, nella reclusione, nello studio dei testi sacri, nella preghiera e nella fede. Non ha mai visto la città, non sa come ci si muove tra le vie del mercato, non ha mai conosciuto né una donna né l’amore. È per questo che quando, pochi minuti di venire consacrato prete, vedendo nella chiesa una donna di notevole bellezza, dalla pelle chiara e i biondi capelli lunghi portati sciolti, se ne innamora all’istante. Tuttavia sta per essere consacrato sacerdote! Cosa fare?
Non fa niente. Passa il tempo rapito dalla donna che gli fa cenno di uscire con lei. Il tempo passa, e lui viene ordinato. Al termine della cerimonia la donna gli si avvicina, gli sfiora la mano con la propria e gli dice: “Disgraziato! Disgraziato! Che cosa hai fatto?”, parole che lo tormenteranno per lungo tempo.
Romuald, il nostro sacerdote, rimpiange la propria condizione e per la prima volta si dispera di essere un uomo di fede, vorrebbe uscire per le vie della città (che non conosce) e andare al castello di Clarimonde, la bella ma maledetta dama. L’abate Serapione infatti, sua guida spirituale, lo avverte riguardo la donna, famosa per i propri costumi liberi e per le orge organizzate a palazzo. Romuald poco tempo dopo viene mandato nella parrocchia dove dovrà svolgere il proprio compito di prete, e dove un anno dopo viene chiamato nel bel mezzo della notte da un cavaliere. Salendo sul cavallo, cavalcano per tutta la notte, fino a un castello, dove una dama sta morendo: è Clarimonde. Tuttavia quando entra nella stanza la donna è già spirata, e Romuald, come estremo saluto, le da un bacio sulle labbra.
Bacio che viene corrisposto! Ne esce anche un alito di vita: Clarimonde parla. Gli dice che è viva grazie a lui, e che verrà a trovarlo. Tutto ciò accade pochi giorni dopo, e per Romuald inizia una spirale di sogno e realtà concatenata. Non capisce più cosa sia vero e cosa sia immaginato, non capisce se è un prete che di notte sogna di essere il gentiluomo di Clarimonde o il contrario. Vive due vite. Finchè…
Questo è La Morta Innamorata di Teophile Gautier, racconto pubblicato per la prima volta in rivista nel 1836. Fa parte di quel filone della letteratura detto “grottesco”, per altri invece è “fantastico”. Non ne so molto di entrambi, ma alcune cose saltano all’occhio anche al lettore meno esperto.
Innanzitutto il dualismo: il racconto è assolutamente colmo di elementi doppi, ogni cosa: il bene e il male, Dio e il Diavolo, la fede e la disperazione, la doppia vita del protagonista. Il dualismo rappresenta perfettamente il grottesco, poiché mostra una cosa e allo stesso tempo il suo contrario, fatto che in un normale racconto realistico non potrebbe accadere. Invece con il grottesco, e ancora di più con il fantastico, che un elemento sia sé stesso e insieme il suo opposto è perfettamente normale: sta nel lettore crederci o meno.
È da questa credulità del lettore che passo al secondo punto preso in esame: il narratore di abbandona incondizionatamente (citando le sue parole) a forze soprannaturali. Non si pone domande, non pone alcuna resistenza ai fatti incredibili che gli capitano. Una donna era morta, dopo un suo bacio è tornata in vita. La stessa donna durante una notte successiva gli chiede/ordina di scappare con lei per vivere una vita insieme a Venezia. Che cosa fa Romuald? Accetta. Senza nessuno spirito, senza nessun sentimento, senza nessun rimorso e nessuna gioia. Accetta e basta, dimentico dei propri doveri come parroco e come uomo di Dio. Si lascia trascinare dagli eventi, per quanto soprannaturali possano essere. E questo è lo stesso procedimento che compie il lettore durante la lettura di un testo di questo tipo: abbandona le incertezze per lasciarsi trasportare dalla prosa.
Se da una parte il personaggio protagonista è un prete, un uomo di Dio e di fede, dall’altra la co-protagonista/antagonista (discrimine difficile, in questo caso) è una donna, morta e risorta, famosa fornicatrice, incarnante il maligno. La donna rappresenta un terzo tema del grottesco: il vampirismo in collegamento con il sesso. La donna, nei sogni (o nella vita alternativa?) di Romuald vive perché di nascosto beve alcune gocce del sangue del suo amato, quel tanto che basta per non perire. E Romuald si mostra ben lieto di concedergliele. Non è un vampirismo negativo dunque, ma è lo stesso vampirismo: un rubare a una persona un elemento vitale a favore di sé stesso. E non c’è niente più del sangue, delle labbra, dei denti, del collo, che richiami anche il sesso, motivo principale da cui nasce l’intera vicenda.
I tre punti analizzati li ho inseriti in un commento del grottesco, ma potrebbero benissimo essere considerati come punti del fantastico. Dove sta la differenza? Probabilmente nell’estetica, o nelle intenzioni finali dell’autore, non saprei dirlo. Altri si sono espressi con maggior sicurezza e perizia di me.
In ogni caso è fuori di dubbio che questo sia un racconto eccellente. Il narratore si rivolge a un tu non ben definito, che chiama “fratello” e probabilmente indica un altro prete. La prima persona che si rivolge a una prima persona è una tecnica molto interessante, avvicina molto il lettore al narratore e rende appunto il narratore e i fatti narrati più plausibili e palpabili, concreti: d’altronde sono narrati da chi li ha vissuti. Inoltre le descrizioni sono magistrali, non solo per la cura e la precisione di dettagli, ma perché contengono quel dinamismo, quel qualcosa che le rende facilmente visualizzabili. Non sono descrizioni noiose, meri paesaggi e stanze, sono inserti quasi poetici che portano il lettore a spalancare la bocca davanti a tanta bellezza e maestria narrativa. Un solo esempio: il primo incontro tra Romuald e Clarimonde, durante l’ordinazione in chiesa. La vista di tanta bellezza per la prima volta, il volto, le vesti, i sentimenti che sente nascere prorompenti dentro di sé e che non riesce a ignorare.
Per chi come me non conosce il grottesco e non ci si è mai avvicinato La Morta Innamorata  di Gautier potrebbe essere l’inizio di uno studio interessante, un modo per approcciare altri testi e autori che normalmente non leggeremmo. E ovviamente una lettura estremamente piacevole.

Così tragico, così comico, così assurdo: LA SCOPA DEL SISTEMA - DAVID FOSTER WALLACE

  David Foster Wallace ha 24 anni quando nel 1987 pubblica La Scopa del Sistema ( The Broom of the System ). Non so bene cosa si aspettasse...