domenica 12 aprile 2020

La narrazione nel saggio: SPILLOVER - DAVID QUAMMEN


Quanto ne sappiamo di virus? Eppure sono in mezzo a noi da parecchi anni, dovremmo conoscerli bene. Alcuni sono molto famosi, altri un po’ meno. Alcuni sono una novità, con altri conviviamo da oltre un secolo. Alcuni uccidono, altri potrebbero farlo ma non lo fanno, altri ancora lo fanno ma potrebbero farlo molto di più, con le condizioni adeguate. Quanto ne sappiamo di virus, insomma? Da dove vengono? Perché sono così diversi? Perché a volte basta un vaccino e altre volte si può solo tentare di contenere le conseguenze? Le domande, come potete vedere, sono molte riguardo a questi microbi mortali. L’intento di David Quammen, scrivendo il libro Spillover, è proprio quello di esporre quanto più sappiamo su di loro. Alcune domande troveranno risposta, altre (molte, molte altre) invece no, perché la scienza allo stato attuale delle cose non può rispondervi.

Il libro è stato recensito e studiato in lungo e in largo, quindi probabilmente lo conoscete già: è un saggio diviso in nove capitoli, e in ognuno di questi capitoli l’autore si concentra su un particolare tipo di virus, definendone la storia dei contatti con l’uomo, la provenienza, la localizzazione geografica, le traversie scientifiche e pubbliche, tutte le caratteristiche. Ci dona aneddoti. Ci fa incontrare ecologi, scienziati, medici, antropologi, zoologi, avventurieri, portatori dell’Africa centrale, allevatori. Ci mostra dati, espone teorie, le confuta, ne espone altre. Fino ad arrivare a uno snodo centrale, al messaggio di fondo del libro: i virus sono colpa nostra. È l’essere umano infatti che, con la sua attività spropositata, intacca i climi e le biosfere costringendo gli animali, stabili nei loro ambienti da millenni, a migrare. Questo provoca addensamenti di popolazioni, o contatti tra animali che non si erano mai incontrati, addirittura contatti ravvicinati con l’uomo. È attraverso queste strade che i virus trovano il modo di crescere, spostarsi e diventare pericolosi. Ma come ho detto, questo aspetto del libro probabilmente lo conoscerete già.

Vorrei dunque concentrarmi sull’aspetto formale. Spillover è un saggio, e come tale presenta una lingua scientifica, precisa e sorvegliata, con molti termini tecnici. Alcuni (molti) sono difficili da pronunciare, com’è normale in ambito scientifico, medico, biologico. L’esposizione è chiara e strutturata. A una tesi seguono delle argomentazioni esplicative. Il tutto corredato da dati, cifre, altri termini complicati e denominazioni scientifiche. Un saggio, solitamente, è scritto in questo modo. Ma Spillover? È solo questo?

No. Lo si può intuire già dal primo capitoletto del primo capitolo. È come se l’autore volesse raccontare una storia. C’è un evento iniziale, dal quale sorgono molte domande. I protagonisti di questa storia (i medici, i pazienti, le organizzazioni della sanità, i tecnici di laboratorio…) iniziano ad agire per risolvere il mistero, raccolgono dati, si fanno aiutare da altri personaggi, uniscono le forze per capire cos’è successo, per capire da dove è partito, per capire chi ha iniziato tutto questo. La risposta finale al mistero a volte c’è, poiché i dati e le ricerche hanno successo. Altre volte bisogna aspettare anni, e il lettore percepisce quest’attesa. In alcuni casi le risposte non sopraggiungono e quanto è successo rimane un mistero.

Ecco cosa fa David Quammen con Spillover: non è un semplice saggio espositivo, in cui appunto si espone una serie di dati, conoscenze e teorie al fine di informare il lettore su un preciso argomento, in maniera lineare. Spillover vuole sì informare scientificamente il lettore, ma lo fa attraverso un processo narrativo. Gli viene raccontata una storia. Può essere la storia degli sforzi dei ricercatori che hanno tra le mani un virus mai visto prima e devono isolarlo, capirlo, studiarlo, e della gioia quando il mistero viene svelato. Oppure la storia dei viaggi di Quammen attraverso il mondo, alla volta di foreste, laboratori, templi o tranquille università in tranquille cittadine. In Spillover si percepisce chiaramente lo sviluppo degli studi sui virus, e quanto questi studi richiedano tempo, ingegno, dedizione, coraggio (voi lavorereste mai con i rischio di infettarvi di rabbia, HIV o malaria?) e una dose non indifferente di fortuna. Alcuni passi del libro sono molto riusciti in questo aspetto narrativo e si leggono con il cuore in gola. Altri invece sono più saggistici, tradizionali se vogliamo.

Concludendo, ritengo che Spillover di David Quammen non sia un libro eccellente solo dal punto di vista contenutistico, mostrando quanto le abitudini dell’uomo siano dannose per l’uomo stesso, ma anche dal punto di vista formale, grazie a questo aspetto narrativo che rende la lettura non solo facile e scorrevole, ma addirittura avvincente nelle parti in cui il mistero si infittisce e le risposte alle domande poste sembrano molto lontane.

mercoledì 8 aprile 2020

Quando manca lo stile: 1Q84 - HARUKI MURAKAMI


In tutta onestà 1Q84 è il primo romanzo di Murakami che leggo. Ho letto L’ arte di correre, certo, ma non è un romanzo, è un saggio. Per quanto possa essere narrativo e biografico è comunque un saggio. Di conseguenza Murakami narratore non l’avevo mai incontrato e non sapevo cosa aspettarmi.
È un autore popolare, largamente amato. Potremmo quasi considerarlo un classico contemporaneo, vista l’assidua presenze sugli scaffali delle librerie e sulle mensole dei lettori in tutto il mondo. 1Q84 è riconosciuto come uno dei suoi capolavori – secondo forse a Norvegian Wood e a Kafka sulla spiaggia, eventualmente. Così, amando io i libri lunghi e non facendomi mai spaventare da pagine in quadrupla cifra, sono partito da questo. Ho trovato un’edizione usata praticamente nuova, un cofanetto trasparente con al suo interno i tre volumi che compongono l’opera, volumi prevalentemente azzurri con dei cerchi e un volto – orientale, penso femminile – del quale si distingue un occhio. “Bella edizione” mi sono detto, da amante dei cofanetti. Tuttavia l’aspetto del libro è merito dell’editore, non dell’autore (generalmente), così non gli ho dato troppo peso e ho iniziato la lettura.
Il libro si legge bene, la prosa è chiara e semplice. Fin dal primo capitolo ci si ritrova immersi in una storia con dei misteri, la trama è già iniziata così, senza presentazioni, e non si capisce bene cosa stia succedendo. Intrigante. Una donna, Aomame, è seduta su un taxi imbottigliato nel traffico e non vuole arrivare in ritardo per un lavoro che deve svolgere. Il taxista le dice che può uscire dal taxi e, raggiunta la piazzola d’emergenza della tangenziale camminando con attenzione tra le macchine in coda, scendere dalla tangenziale attraverso una ripida scala. “Ma attenzione” le dice il taxista, “non è una cosa comune, e porta a delle conseguenze”. Aomame, più preoccupata per il proprio appuntamento (cosa dovrà mai fare di così urgente?) che per le conseguenze dello scendere una scala d’emergenza, si accinge all’impresa.
Nel secondo capitolo incontriamo un personaggio maschile, Tengo. Ci viene presentato come un uomo sulla trentina dalla corporatura estremamente massiccia. Insegna matematica in una scuola preparatoria (scuola che prepara gli studenti ai test d’ammissione per le università, test particolarmente difficili) ma vorrebbe scrivere libri. Il suo editor e datore di lavoro è Komatsu, uomo sempre attivo e dall’ambigua reputazione nel mondo letterario. In questo capitolo i due si devono incontrare per discutere dei libri presentati per il concorso letterario per esordienti della rivista di Komatsu. Tra i testi presentati c’è quello di una giovane ragazza diciassettenne, di nome Fukaeri – presto scopriremo essere uno pseudonimo, creato con l’unione di nome e cognome della ragazza. Il titolo del libro è La crisalide d’aria. “Cos’è una crisalide d’aria? Come può esistere?” sono le prime domande che vengono in mente. Il romanzo non è scritto bene, e Komatsu vuole rifiutarlo, ma concorda con Tengo sostenere che abbia qualcosa di particolare, sarà la trama, non si sa, ma una volta iniziato si vuole leggere fino alla fine. Com’è possibile? In ogni caso, il libro in questa forma non può essere presentato al concorso. E allora Komatsu ha un progetto per Tengo: riscrivere il libro. Cosa ne verrà fuori? Cosa succederà quando Tengo e Fukaeri si incontreranno? Cosa c’è scritto di così magnetico nel libro?
Come ho detto, già dall’inizio si è immersi in un alone di mistero avvolgente, con domande che è difficile ignorare e a cui al momento è impossibile dare una risposta. Tra spionaggi, un cielo con due lune (esatto, due lune, una normale e una verde, più piccola e deforme), eventi storici che non corrispondono, dubbi sulla realtà in cui viviamo, amori perduti e la necessità di ritrovarli, questo libro racconta di alcune delle nostre paure, e lo fa con una semplicità e correttezza disarmanti. È inevitabile, in alcuni momenti, sentirsi profondamente rappresentati da questa storia, per quanto assurda e immaginifica. Inoltre coinvolge emotivamente, il lettore è naturalmente portate a voltare pagina (in alcuni punti) per sapere come va a finire, se finalmente i protagonisti o gli antagonisti riusciranno nel loro intento. Le domande troveranno una risposta? Sì, ma nasceranno altre domande. Ci sarà, una risposta anche per queste? Leggi i capitoli successivi, e lo scoprirai.
Tuttavia un libro non può essere valutato soltanto dalla trama, deve anche essere sostenuto da uno stile adeguato. E lo stile di Murakami com’è? È semplice. Le frasi sono brevi, le subordinate (quando ci sono) non vanno mai a sovraccaricare il peso di lettura. Le descrizioni sono molto particolareggiate e in alcuni punti rendono davvero bene l’immagine che l’autore vuole dare. Ma tutto qui. Non va oltre questa semplicità, non è interessante leggere una scrittura di questo tipo. Sembra sia stato scritto solo per la trama, per essere venduto, per raccontare una storia fine a sé stessa insomma. Non vi è un vero studio dello stile. Inoltre, per quanto le descrizioni siano particolareggiate e precise, Murakami è in difficoltà (o almeno questa è stata la mia percezione) quando deve descrivere le emozioni dei personaggi. Non le descrive mai per sé stesse, o mostrandole attraverso le azioni e i comportamenti dei personaggi. Utilizza sempre metafore e similitudini. In un punto del terzo libro descrive la solitudine come una pietra liscia sul fondo scuro e freddo dell’oceano. Immagine sicuramente interessante, e non c’è dubbio che renda bene il concetto. E sicuramente può anche essere molto poetica. Ma leggere questo tipo di procedimento cinque volte in una pagina, e ogni dieci pagine, stanca. Fatto una volta per impreziosire un particolare punto del testo va bene, ma come consuetudine no.
Inoltre non solo formalmente, ma anche strutturalmente ci sono degli elementi che non filano proprio bene. Ho scritto che la trama attira e invoglia il lettore e ne sono convinto, ma alcuni elementi narrativi proprio non mi convincono. A cominciare dal meccanismo di entrata ed eventuale uscita dal mondo alternativo (scusate il piccolo spoiler, l’avreste comunque scoperto entro poche decine di pagine): in che modo entrare in questo mondo è facile, vivendo la propria vita come sempre, ma uscirne dovrebbe essere un problema? Bisognerebbe uscirne vivendo comunque la propria vita, senza cambiamenti, così come è successo entrandovi. Scusate se non poso approfondire ulteriormente il discorso e se eventualmente non lo capite a fondo, ma più di così non posso dirvi senza scadere in volgare anticipazioni.
Un secondo elemento che mi ha infastidito è la caratterizzazione dei personaggi e delle loro abitudini, in particolare quelle culinarie. So che può sembrare una sciocchezza, ma se un autore da così tanto peso a determinate azioni dei personaggi, significa che queste azioni sono importanti, perché rendono il personaggio quello che è. Pura e semplice teoria testuale. Ora, cosa fa Murakami? Crea dei personaggi anche interessanti il più delle volte, e diversificati tra loro. Abbiamo un’istruttrice di ginnastica, un professore i matematica, una guarda del corpo, un detective privato. Ognuno di loro ha abitudini, corporature, sogni e peculiarità diverse. Tuttavia mangiano tutti nello stesso modo: evitano la carne, prediligono le verdure, cucinano molto e a volte si dimenticano di mangiare. Tutti. Com’è possibile? Leggendo L’arte di correre sono venuto a sapere che Murakami ha esattamente queste abitudini culinarie. Inoltre, i personaggi, per quanto diversi, si comportano quasi tutti nello stesso modo, pensano nello stesso modo, e tutti, in un modo o nell’altro, richiamano l’autore.
Ora, non sono contrario a parlare di sé stessi nei libri, anzi uno scrittore spesso sente l’esigenza di scrivere proprio per esprimere sé stesso. L’ha fatto Hemingway nel Vecchio e il mare, l’ha fatto Proust nella Recherche. Ma non in questo modo. Mettere sé stessi al centro del proprio libro, creare un sistema di personaggi sempre uguale a sé stesso (che è uguale all’autore stesso), è come mostrare un mondo in cui l’unico punto di vista sia quello dell’autore. Siamo ben lontani dalla polifonia dei caratteri di Dostoevskij. Ovviamente non è necessario raggiungere il grande scrittore russo, ma creare un minimo di diversità sì.
Concludendo, 1Q84 di Murakami è un libro imperfetto, con uno stile forse troppo semplice, uno stile che vuole solo catturare il lettore senza offrire una vera esperienza di lettura. La trama presenta delle impurità, ma nonostante questo la struttura regge e si è naturalmente invogliati a continuarne la lettura. A un certo punto entra in gioco il gusto personale, e nonostante a me non sia particolarmente piaciuto (pur considerandolo buono) posso capire che sia stato e venga tutt’ora apprezzato da molto lettori in tutto il mondo.

Così tragico, così comico, così assurdo: LA SCOPA DEL SISTEMA - DAVID FOSTER WALLACE

  David Foster Wallace ha 24 anni quando nel 1987 pubblica La Scopa del Sistema ( The Broom of the System ). Non so bene cosa si aspettasse...